di Michela Rognoni
Conosciuti a caso grazie al Release Radar di Spotify, i Swordfish a quanto pare vanno alla grande negli Stati Uniti, e il loro ultimo disco, Rodia, uscito a maggio via Take This To Heart Records, è stato paragonato a grandi nomi della scena emo come gli American Football (troppo) o i Sorority Noise (ecco, quasi).
Io invece ho usato altri nomi per convincere Denise ad ascoltarli, e ora lo farò anche con voi: buona parte dei brani in Rodia sono come se i Moose Blood avessero fatto un figlio coi Front Bottoms. Questo lo dico per via dei suoni pacati e stinti, della voce stonata e sconsolata e delle trombette (I’m Okay (x3); Ghost Song).
Le band emo che di solito mi piacciono sono quelle in cui musica e testi insieme sembrano darti un pugno nello stomaco fortissimo. In Rodia si sente l’urgenza, la passione, e l’emozione viscerale che caratterizza il genere, ma non mancano momenti più upbeat che rimandano alla turbolenza del punk rock nelle sue versioni più lo-fi (Trenton Garage).
I testi parlano di “Qualsiasi cosa dalla sanità mentale, ai cuori infranti, all’esistenzialismo, fino al bruciare accidentalmente i propri amici con la sigaretta” e ce lo dice il cantante Chandler Lach quindi è vero.
Rodia si chiude con “Owen” e con una frase troppo perfetta che non riesco a trovare un modo migliore per chiudere questa recensione se non riproporla:
“I used to think of you everytime I heard American Football, you should know that I don’t anymore”.